Il crac Parmalat ha rappresentato uno tra i più grande scandali di livello mondiale avvenuti nel XX secolo. L’episodio ha coinvolto circa 150.000 risparmiatori, che non sono mai stati totalmente ripagati, ed è stato causa di vere e proprie rovine economiche di molte famiglie. Rappresenta uno dei maggiori casi di bancarotta fraudolenta, il cui buco finanziario si aggira intorno ai 14 miliardi di Euro, 7 dei quali riguardano prestiti obbligazionari. Per avere un’idea chiara delle dimensioni del crack e alla vastità dei danni, ci basterà pensare alle dimensioni della Parmalat stessa, una multinazionale presente nei cinque continenti che conta oltre 36.000 dipendenti.
Una crisi preannunciata
La storia della Parmalat inizia negli anni ’60 quando Calisto Tanzi fonda la multinazionale. L’epilogo, invece, avviene il 19 Dicembre del 2003, anche se, le prime fratture che preannunciano la crisi, si verificano molto prima. Infatti, già dal 1990 i bilanci della Parmalat sono stati falsificati sulla base degli obiettivi che di anno in anno venivano individuati, con la finalità di evidenziare una situazione di crescita complessiva del Gruppo, e di nascondere, al contrario, le aree di criticità che man mano emergevano.
Le falsificazioni riguardavano nello specifico la tenuta dei margini operativi, individuabili nell’EBIT e nell’EBITDA, il livello di indebitamento verso banche e obbligazionisti, la consistenza del patrimonio netto, la veridicità e l’esigibilità dei crediti. Sostanzialmente, il Gruppo Parmalat otteneva credito riuscendo a mantenere in equilibrio stabile la sua struttura finanziaria e a raggiungere quel livello minimo di margine operativo che consentisse di realizzare flussi di cassa tali da essere sufficienti al rimborso dei debiti finanziari. Ma ovviamente, affinché questo sistema potesse continuare ad essere alimentato, era necessario occultare il vero livello d’indebitamento.
Solitamente si procedeva con la cessione di crediti falsi nei confronti di società riconducibili alla famiglia Tanzi, in cambio di corrispettivi mai ricevuti, oppure con l’iscrizione di falsi ricavi tramite il supporto di falsi contratti. Per mettere in atto queste operazioni venivano utilizzate tre società appartenenti al Gruppo, ovvero: la Curcastle e la Zilpa, con sede nelle Antille Olandesi, e il Contal, società italiana.
Tutto ciò si verificò fino al 1998; dal 1999, invece, il livello di falsificazione dei conti del Gruppo risulta essere meno grossolano e più raffinato, attraverso l’adozione di un unico soggetto che in maniera quasi esclusiva venne posto come controparte delle operazioni fittizie. Si tratta della Bonlat Financing Corporation, azienda con sede nelle Isole Cayman, controllata indirettamente da Parmalat Finanziaria S.p.a.
I primi sospetti
La Consob, ovvero l’Autorità di vigilanza, comincia a porsi delle domande quando nel 2002 la società pur dichiarando una liquidità superiore a 4 miliardi di euro, il Gruppo Parmalat continuava a richiedere finanziamenti, soprattutto sotto forma di prestiti obbligazionari. La Parmalat cerco di giustificare l’anomalia affermando come un elevato grado di liquidità avrebbe consentito al gruppo di consolidare la sua politica di espansione che, solo grazie a ingenti somme di denaro prontamente disponibili, sarebbe stato in grado di cogliere tutte quelle opportunità d’investimento che si sarebbero potute presentate sul mercato. Anche se si tratta di una dichiarazione falsa, che non si basa su alcuna forma di strategia finanziaria, né il collegio sindacale, che sarebbe l’organo di vigilanza interno alla stessa società, né le società di revisione del bilancio esprimono alcun dubbio in merito alla situazione della società. Rimborsare un prestito obbligazionario.
Tuttavia, quando l’azienda è costretta a dover pagare 150 milioni di Euro, prende tempo e ci si comincia a chiedere: Com’è può una società che dichiara 4 miliardi di pronta liquidità a non essere in grado di rimborsare 150 milioni di Euro? Solo a questo punto la Consob chiede alla Gran Thornton, una società di revisione, di verificare l’esistenza della liquidità, fino a quel momento dichiarata presso la Bank of America e, in questo modo, scopre che il denaro non esiste. Non appena rivelata la scoperta, vengono informate le procure di Milano e di Parma, dal momento che alcuni illeciti scoperti hanno rilevanza penale. Ciò che, però, lascia senza spiegazione è com’è possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Infatti, anche a fronte dei bilanci falsati, doveva risultare abbastanza strano che ad una rapida crescita del gruppo non è mai corrisposto un aumento della redditività, semmai un suo progressivo deterioramento accompagnato da un livello d’indebitamento sempre più elevato, se poi si aggiunge una vasta rete di società costituite tra i Caraibi e le isole Cayman, sarebbe dovuto essere scontato pensare ad una truffa.
Evidentemente, e così confermano anche le indagini giudiziarie, vi erano degli stretti legami tra Tanzi e vasti settori della politica che probabilmente hanno influito sulle coperture di cui il gruppo ha goduto. Alla fine, Tanzi è stato condannato in primo grado a 18 anni di reclusione, mentre, le due società di revisione, a cui erano pure state riconosciute delle responsabilità, hanno risarcito migliaia di parti civili. Tuttavia, per quanto riguarda i risparmiatori nulla da fare per gli azionisti.
Occultamento dei debiti e fatturazioni false
Dunque la capacità che il Gruppo Parmalat ha avuto nello stare in piedi per tutti questi anni, considerando che era già decotta nel momento stesso in cui veniva quotata in Borsa, nel ’90, è da attribuire al sostegno finanziario di grandi banche internazionali e non solo. Com’è venuto fuori dall’indagini, ma come anche ha dichiarato l’ex direttore finanziario della Parmalat, le banche non si sono limitate a fare credito alla società, bensì, assicuravano anche una liquidità, non indifferente, attraverso l’emissione di bond. Il ricavato di questi bond veniva utilizzato dalla Parmalat in parte per rimborsare le banche e in parte per finanziare acquisizioni che venivano suggerite da quelle stesse banche che gliel’avevano fornito in precedenza. Da ciò scaturiva che le società acquisite erano spesso indebitate con gli stessi istituti di credito che, profumatamente pagati, emettevano i bond e assistevano la Parmalat nella scelta e nella valutazione delle imprese da comprare. Inoltre, basta vedere come i dati sull’indebitamento registrati dalla Centrale dei rischi della Banca d’Italia non combaciavano con quelli riportati nei bilanci ufficiali della società, per capire la totale assenza di controlli e, dunque, un’eventuale complicità di istituzioni significative.
Parmalat gestiva rapporti in cui era diventata consuetudine la compilazione di un semplice pezzo di carta con un timbro, scritto a mano, al fine di ottenere finanziamenti costanti, senza alcun tipo di controllo. Tramite documenti falsi, Parmalat riusciva a ottenere dalle società di factoring e dalle banche l’anticipo dei crediti, e cioè delle somme fatturate, per un ammontare annuo di circa quattro miliardi di euro. Il sistema del Gruppo Parmalat si basa, dunque, sull’emissione di fattura falsa verso un concessionario, nei cui confronti riportava a bilancio un credito commerciale. Nel contempo, la stessa Parmalat emetteva una ricevuta bancaria, facendosi in tal modo anticipare da un istituto di credito l’importo fatturato al concessionario. Poco prima che la fattura stava per scadere, Parmalat finanziava il concessionario, il quale provvedeva a estinguere la ricevuta bancaria. Dopo di che, con un giro contabile l’operazione veniva compensata e annullata tramite le società di comodo domiciliate nei paradisi fiscali, situate in diverse isole esotiche. Ma come facevano le banche a scontare pezzi di carta di dubbia provenienza non accompagnati dalla relative documentazione normalmente richiesta in un rapporto di questo tipo?
L’appoggio delle Banche
A seguito dello scandalo l’istituto centrale passa in rassegna le posizioni di diverse banche quale la Citibank, l’Intesa, Bnl, la Capitalia, la SanpaoloImi, la Banca Popolare di Milano (Bpm), la Banca Popolare Italiana (Bpi), la Deutsche Bank, la Monte dei Paschi e l’Unicredito Italiano, poiché rivelatisi tra i maggiori gruppi bancari che erano più esposti verso Parmalat. Queste banche avevano in portafoglio non solo obbligazioni Parmalat, ma anche altri prodotti finanziari di società del gruppo, per un totale di 179,6 milioni di euro fino a raggiungere i 229 milioni di euro.
Quando, però, Parmalat entra nell’ultimo anno di vita nel 2003, le banche cominciano a sgonfiare i portafogli in modo sistematico, fino a svuotarli quasi del tutto, ma, continuano a consigliare i risparmiatori ad acquistare nuove obbligazioni, scaricando su di loro quelle che possedevano.; fino a che Il 30 settembre 2003, nei loro portafogli, i bond si sono ridotti a 95 milioni di euro. Le banche continueranno a vendere le obbligazioni, fino a che, il 17 dicembre, si assiste al tracollo: Bank of America informa il revisore Grant Thornthon dell’inesistenza del conto intestato alla Bonlat, su cui dovrebbero esservi all’incirca 4 miliardi di liquidità.
Cos’è successo ai risparmiatori?
La scandalo ha maggiormente colpito la categoria dei risparmiatori, le cui uniche consolazioni sono venute dalla nuova Parmalat. Infatti, coloro che avevano investito 5mila euro in bond della vecchia Parmalat e, poi, hanno aderito alla conversione dei bond in azioni della nuova Parmalat, con le quotazioni del titolo a 3 euro avrebbero recuperato, dalla vendita delle medesime azioni, il 60% del capitale iniziale. Per quanto riguarda Calisto Tanzi, invece, nel 2014 la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la pena definitiva a 17 anni, mentre al direttore finanziario Fausto Tonna, è stata attribuita una condanna a 9 anni di reclusione.