Le banche centrali rappresentano un punto di riferimento per gli investitori del Forex Trading. I massimi organismi finanziari, infatti, esercitano un certo potere – spesso indiretto – sui mercato e generano market mover di primo piano. In questo articolo parleremo, in particolare, di quattro banche centrali: Bank of Japan, Bank of England, Bank of Canada, Reserve Bank of Australia. Banche minori, almeno in rapporto alla Federal Reserve e alla BCE, ma comunque meritevole di uno studio approfondito. Partiremo da una riflessione sulla necessità di analizzare il comportamento delle banche centrali, presenteremo i motivi per cui anche quelle minori devono essere oggetto di analisi, offriremo qualche prospettiva sul 2018 di BoJ, BoE, BoC, RBA.
Perché le banche centrali
Sulla necessità di includere le banche centrali nel proprio lavoro di analisi, e più specificatamente analisi fondamentale, non ci possono essere dubbi. Esse, infatti, generano una influenza sia diretta che indiretta nei rapporti tra le valute.
L’influenza diretta è data dalle conseguenze concrete delle politiche monetarie. Esse si compongono, in genere, della decisione sui tassi di interesse e sull’eventuale Quantitative Easing. Entrambe le leve (manipolazione tasse e QE) incidono in maniera netta e lineare sull’offerta di moneta che, insieme alla domanda, concorre – come qualsiasi altro bene del resto – a formare il prezzo.
I tassi di interesse agiscono sull’offerta di moneta, e più specificatamente sulla massa monetaria, perché, di fatto, determinano il costo del denaro. Infatti, si parla dei tassi ai quali la banca centrale concede denaro alle banche commerciali, le quali, a loro volta, adatteranno i tassi dei prestiti alle famiglie e alle imprese, insomma all’economia reale. E’ evidente che se gli interessi sono bassi, verranno chiesti e concessi più prestiti, e in circolo verrà immesso più denaro. Si può quindi affermare che maggiori sono i tassi, maggiore è la massa monetaria.
Il meccanismo del Quantitative Easing è simile. Con questo termine si intende il programma di acquisti, da parte della banca centrale, dei titoli di debito pubblici o privati. Lo scopo è alleggerire il sistema finanziario e finanziare le istituzioni e le aziende a un tasso bassissimo. Anche in questo caso, il Quantitative Easing aumenta la massa monetaria.
In definitiva, se la politica monetaria è espansiva, quindi i tassi sono bassi e il QE abbondante, la valuta corrispondente tende a deprezzarsi. Se la politica monetaria è restrittiva, quindi i tassi sono alti e il QE inesistente o scarno, la valuta tende ad apprezzarsi.
Da qui si giunge al secondo quesito: perché le banche centrali minori? Intuitivamente, verrebbe da includerli nel sistema di analisi solo in caso di trading su una delle valute corrispondenti. Per esempio, analisi della Bank of Japan se si trada con cambi a base yen; analisi della Bank of England se si trada con cambi a base sterlina e via dicendo. E invece le banche centrali minori vanno studiate, o almeno monitorate, anche in tutti gli altri casi. I motivi sono essenzialmente due.
I cambi sono correlati tra di loro. I cambi formati da valute cosiddette minori, sono correlati positivamente e negativamente con gli altri cambi. Quand’anche si tradasse semplicemente ed esclusivamente con l’euro-dollaro, sarebbe comunque utile monitorare o addirittura analizzare i cambi minori, apparentemente meno rilevanti. E per farlo è necessario “vedersela” con le rispettive banche centrali.
I mercati sono integrati. L’effetto farfalla è cosa nota nel trading. Tutto si lega, quando si parla di mercati valutari. Sicché, quello che accade in Giappone non può non avere una sua influenza altrove. Anche perché l’equilibrio tra le valute è molto delicato e se una banca centrale, per esempio, giocasse al ribasso e svalutasse pesantemente la sua moneta, le altre banche centrali non potrebbero rimanere a guardare; pena la perdita di competitività delle esportazioni. E poi c’è anche un effetto psicologico, che muove il mercato a prescindere dai tentativi degli istituti di tenere saldo il timone.
Bank of Japan: cosa ha fatto nel 2017, cosa farà nel 2018
La Bank of Japan sta al Giappone come la Fed sta per gli Stati Uniti e per la Bce sta per l’Euro Zona. In realtà rispetto a questa ultima gode di un maggiore margine di azione, in quanto può, per statuto, finanziare più o meno direttamente l’economia. La similitudine tra Bank of Japan e BCE riguarda però soprattutto le sfide che devono affrontare, che sono praticamente le stesse: una bassa inflazione e una economia moderata.
Anche le armi sono le stesse: tassi molto bassi e Quantitative Easing. Va detto però che i tassi in Giappone sono molto più bassi e il QE molto più diretto. In estrema sintesi, Tokyo ha scelto una cura da cavallo, che dura da qualche anno ormai.
Nel 2017 ha mantenuto questo assetto monetario molto espansivo. Nello specifico, tassi di interessi sono fermi al -0,10% (talmente bassi da andare in negativo) e il QE è pari a 760 miliardi di dollari all’anno (meno abbondante di quello europeo in termini assoluti, ma molto più abbondante se si considera che il Giappone è molto più piccolo dell’Eurozona).
I risultati sono in chiaroscuro. L’economia minaccia di crescere a un 4% annuo, che è il dato migliore del 2006. E, in ogni caso, di gran lunga superiore alla maggio parte dei paesi dell’Unione Europea, impelagata come è nel territorio dei due punti percentuali. Di contro, l’inflazione, che è poi la vera ragion d’essere di una politica monetaria così drastica, dovrebbe essere pari al +0,8% nel 2017, un dato peggiore di tre decimi rispetto a quanto auspicato.
La Bank of Japan continuerà anche nel 2018 con questo approccio iper-espansivo? Da più parti si levano riserve circa possibili squilibri, peraltro legittime. Tuttavia l’inflazione è ancora troppo bassa, quindi è probabile che il prossimo anno si svilupperà sulla falsariga del 2017. Le cose cambieranno se e solo se le stime per il 2018 saranno confermato a +1,8%, ma in ogni caso se ne parlerà verso la fine dell’anno, periodo in cui il dato sui prezzi anno su anno prenderà corpo. Va detto, però, che se il 2017 rimane inchiodato al +0.8%, un balzo in avanti così corposo diventa improbabile.
Bank of England: cosa ha fatto nel 2017, cosa farà nel 2018
La Bank of England si trova in una situazione non certo invidiabile. Oltre a sostenere i prezzi e, in misura indiretta, l’economia del Regno Unito, è costretta a fare i conti con la Brexit, un evento che per sua costituzione genera profonde incertezze. D’altronde, non è mai accaduto che un paese, e men che meno un paese importante come il Regno Unito, lasciasse l’Unione Europea.
La tattica scelta dalla Bank of England per questo 2017 è frutto di un approccio attendista, se escludiamo l’ultima parte dell’anno. I meeting del board e le conferenze stampa si sono succedute senza che si apportassero modifiche alla politica monetaria. Un approccio che si è rivelato saggio ma che è stato comunque foriero di conseguenze non proprio positive. Per esempio, il board si è spaccato. In genere l’unanimità viene data per scontata quando si parla di banche centrali, quindi non c’è da sorprendersi per lo scalpore generato dalle minute, che hanno riportato una situazione in cui due o più membri esprimevano parere contrario.
Tattica attendista, quindi, ma fino a novembre, quando la Bank of England ha dato ascolto alle pressione degli investitori che chiedevano una stretta monetaria. Nel meeting del 2 novembre, la BoE ha alzato i tassi di interesse dal minimo storico dello 0,25% allo 0,50%. Ha lasciato però invariato il Quantitative Easing a 486 miliardi di sterline l’anno, di cui 10 dedicati ai corporate bond (obbligazioni private).
Secondo alcuni analisti, questa mini-stretta monetaria è stata un errore: i parametri economici infatti non giustificherebbero un aumento dei tassi. A dimostrazione di ciò, la reazione della sterlina, che subito dopo l’annuncio si è deprezzata, sebbene in linea teorica un rialzo dei tassi avrebbe dovuto generare un apprezzamento.
Proprio i dati economici rappresentano la chiave per prevedere le mosse della BoE nel 2018. L’inflazione, per esempio, è pari a 3% annuo, che è un ottimo risultato, specie in un panorama caratterizzato da un Occidente in sofferenza per i prezzi a rallentatore. Di contro, le stime parlano di una crescita economica che, per quanto costante, è ancora troppo moderata. Si parla dell’1,7% per questo 2017, che è in linea con la maggior parte dei paesi dell’Euro Zona.
E’ improbabile, quindi, che la BoE abbia iniziato – o abbia in mente – un percorso simile a quello che ha intrapreso la Federal Reserve, fatto di strette monetarie costanti nel tempo. Anzi, se l’economia reale non restituirà le evidenze auspicate e la Brexit non avrà un buon esito, la BoE potrebbe abbassare nuovamente i tassi. Insomma, il panorama è ancora piuttosto incerto.
Bank of Canada: cosa ha fatto nel 2017, cosa farà nel 2018
La Bank of Canada vanta una tradizione particolare per quanto riguarda la politica monetaria. Da sempre, infatti, segue la Federal Reserve, imitandone le mosse. Ciò non deve stupire, se si considera l’elevato grado di integrazione che caratterizza l’economia degli Stati Uniti e del Canada. Questa tradizione è stata sospesa, però, in occasione dell’ultima crisi economica, durante la quale la Bank of Canada ha deciso di svincolarsi parzialmente e di promuovere un approccio più indipendente. Per questo motivo, la risalita dei tassi non è iniziata in concomitanza o subito dopo quella della Federal Reserve, ma solo quando l’economia ha dato le risposte auspicate.
Tuttavia, il Canada è stato il primo paese occidentale ad aver alzato i tassi, passando dal minimo storico dello 0,50% all’1,00% a settembre 2017. Un rialzo poderoso (in genere il salto è di 25 punti base), che potrebbe celare l’intenzione di intraprendere una stretta progressiva in stile Fed. La Bank of Canada alzerà i tassi nel 2018? Verrebbe da rispondere in maniera affermativa, ma le cose sono più complicate di così. A dichiararlo è stato lo stesso governatore Poloz, numero uno della BoC, che ha puntato il dito sull’incertezza generata dalla politica commerciale di Donald Trump. Non essendoci notizie chiare in merito, il board canadese non si è per ora sbilanciato sui programmi relativi al 2017.
Guardando ai parametri economici, comunque, una stretta monetaria costante per quanto moderata parrebbe giustificata. L’inflazione è a livelli soddisfacenti (2% nel 2018), l’economia cresce a ritmi elevatissimi (4,5% all’anno nel secondo semestre 2017). Insomma, tra le economie occidentali la canadese è quella che se la passa meglio. Il Canada rappresenta uno dei quei rari esempi di politica monetaria espansiva in grado di dare gli esiti sperati nei tempi auspicati.
Reserve Bank of Australia cosa ha fatto nel 2017, cosa farà nel 2018
L’Australia è inserita saldamente in un percorso di politica monetaria espansiva. A differenza del Canada, non sembra voler cambiare approccio nel breve periodo. A dichiararlo è stato il governatore della RBA in occasione dell’ultimo meeting, che – come da attese – ha riconfermato i tassi di interesse al minimo storico, ossia all’1,5%. Eppure, se guardiamo ai dati economici, l’Australia non va affatto male e, anzi, ci sarebbero le basi per una timida ma costante stretta monetaria. L’inflazione è vicina al target del 2%, il tasso di disoccupazione è nuovamente sceso (adesso è al 5,4%), il Prodotto Interno Lordo aumenta a un ritmo del 2,8% all’anno (terzo trimestre 2017).
Perché l’Australia intende perseverare in una politica monetaria molto espansiva? Le risposte vanno ricercate nella struttura dell’economia australiana, che è legata a doppio filo con l’export delle materie prime e con la Cina (principale compratore). Ebbene, vi è incertezza a proposito. Una incertezza che riguarda i prezzi delle materie prime, che stanno scontando i postumi del trend discendente terminato solo a fine 2016, e da una produzione industriale cinese in via di rallentamento.
In definitiva, si apprezzerebbe un cambio della politica monetaria da parte della RBA solo se i prezzi delle materie prime aumentassero in maniera sensibile e la Cina riprenderebbe a correre ai (consueti) ritmi straordinari. Non va ignorato nemmeno lo scenario globale, dominato ancora – per ciò che riguarda l’Occidente – da politiche monetarie espansive. Come abbiamo visto, le uniche due banche centrali che hanno intrapreso un percorso di stretta monetaria sono la Federal Reserve, il Canada e, in misura minore, la Bank of England (che ha aumentato i tassi di soli 25 punti base). Il panorama australiano, comunque, è meno incerto.