La politica monetaria della Fed potrebbe cambiare. Si tratterebbe di un evento eccezionale, che costringerebbe gli investitori e i trader del Forex in particolare a prendere le necessarie contromisure. Anche perché la Federal Reserve è la banca centrale più importante del mondo, e le sue decisioni di politica monetaria impattano in maniera significativa non solo sul dollaro ma anche sulle altre valute, nonché sul clima generale degli investimenti (speculativi e non).
In questo articolo approfondiremo le ultime vicende legate alla Fed, parleremo dei motivi che potrebbero spingere la banca centrale americana a cambiare politica monetaria e descriveremo alcune delle probabili conseguenze.
I piani della Fed
Fino a qualche mese fa, il destino della politica monetaria americana, almeno quello a breve termine, non sembra dover riservare sorprese. Nello specifico, la Fed aveva inserito il dollaro in un programma di rialzo dei tassi. Un inasprimento ovviamente moderato e graduale, peraltro preceduto da approfondite dichiarazioni in merito, ovviamente effettuate allo scopo di non turbare il mercato e innescare un processo di transizione più dolce possibile. Nello specifico, si pensava a tre aumenti di tassi all’anno, dal valore di 25 punti base ciascuno. In effetti, dal 2015 al 2018 è andata esattamente così. E infatti il tasso di interesse è passato dallo 0,25% al 2,50%.
Un inasprimento, questo, giustificato dal contesto economico e monetario. Dal punto di vista economico, l’aumento dei tassi trovava legittimazione nel ciclo economico espansivo, che in pochi anni ha portato gli Stati Uniti fuori della crisi. Dal punto di vista monetario, l’aumento dei tassi era giustificato dalla precedente attività di allentamento monetario. In breve, la Fed aveva imbastito un Quantitative Easing corposissimo, che quasi da solo è stato in grado di portare gli Stati Uniti fuori dalla crisi.
Il 2019 sembrava dover replicare gli anni precedenti. Janet Yellen, ex presidente della Fed, aveva lasciato la carica prospettando un sereno e morbido processo di inasprimento monetario, sulla scorta di quanto accaduto dal 2015 in poi. Eppure l’ultimo aumento dei tassi di interessi è datato 19 dicembre 2018. Nel 2019 non c’è stato nessun aumento dei tassi. Anzi, già da qualche mese si ragiona su un cambio di paradigma. Cosa sta accadendo?
La domanda è più che lecita, dal momento che il ruolo della Fed trascende le sue funzioni originarie. Le sue azioni, infatti, impattano sull’economia mondiale e sul mondo degli investimenti. Incidono non solo sul dollaro, com’è giusto che sia, ma anche sulle altre valute e, ovviamente, su parecchie asset class.
Il cambiamento del quadro
In genere, sono tre i motivi che spingono una banca centrale ad aumentare i tassi: la crescita economica, un recente passato caratterizzato da una politica monetaria molto espansiva, l’aumento dell’inflazione. Quest’ultimo caso non riguarda gli Stati Uniti, che da questo punto di vista non hanno sofferto distorsioni in tempi recenti (a differenza per esempio delle economie emergenti costrette ad aumentare i tassi per far fronte alla corsa dei prezzi).
Il rialzo dei tassi come già anticipato è stato giustificato con la passata politica monetaria espansiva, che ha determinato un abbassamento radicale degli stessi tassi e da un Quantitative Easing quasi estremo. Il tutto, sostenuto da una crescita economica che ha viaggiato su livelli di eccellenza.
Nel 2019, però, il contesto è iniziato a mutare. In primo luogo, la crescita economica ha manifestato segnali di rallentamento. Niente di particolare, per ora, ma alcune performance, soprattutto in campo edilizio, parlano chiaro. Soprattutto, è emerso un problema che gli Stati Uniti hanno raramente dovuto affrontare nel corso della loro storia: la bassa inflazione o, per meglio dire, la disinflazione. In parole povere, l’aumento dei prezzi sta rallentando, fin quasi a sfiorare l’immobilismo. Questo è un problema per tutte le economie, in quanto se i prezzi sono fermi l’economia fa fatica a crescere, gli investimenti si bloccano etc.
Ora, quando l’inflazione è troppo bassa, aumentare i tassi è uno dei provvedimenti peggiori che si possano prendere. Anche perché l’aumento dei tassi, in linea teorica ma spesso pratica, ha proprio l’effetto di abbassare l’inflazione. Da qui la necessità di fermare il processo di inasprimento della politica monetaria. Alla luce di tutto ciò, non stupisce che la Fed abbia rinunciato agli aumenti messi in cantiere per questo 2019 (almeno per ora).
A preoccupare dell’attuale quadro economico e finanziario, però, sono soprattutto le prospettive a breve e medio termine. E in particolare le prospettive internazionali. In tutto l’Occidente, ma anche in Cina, la crescita sta subendo un brusco rallentamento. Le tensioni dal punto di vista commerciale potrebbero peggiorare ulteriormente la situazione. Questi due fenomeni, per inciso, sono relativamente recenti. Ancora a metà del 2018 si prospettiva un futuro economico ben diverso.
Il futuro della Fed
Cosa farà la Fed? Come risponderà agli stimoli che giungono dal cambiamento del quadro economico e finanziario? Una prima risposta è evidente guardando il grafico dei tassi. L’aumento dei tassi è proseguito spedito per tre anni, ma nel 2019 si è fermato. Certamente, per tutto il 2019 i tassi non verranno aumentati. Tuttavia, potrebbe accadere qualcos’altro, ovvero un cambio di rotta a centottanta gradi. Sarebbe un evento più che significativo, se si considera che le decisioni di politica monetaria necessitano di molto tempo per essere metabolizzate dagli investitori, e senza che si creino distorsioni o addirittura dinamiche di panico nei mercati.
Alcuni analisti, e parecchi osservatori economici, credono che la Fed non solo non alzerà più i tassi, ma addirittura li diminuirà. La Fed, secondo questa visione, tornerebbe a una politica monetaria espansiva, magari su base episodica. Certo, è difficile che i tempi del Quantitative Easing da migliaia di miliardi di dollari all’anno possa tornare, ma si tratta comunque di un cambio di prospettiva differente, in grado di generare conseguenze a tutti i livelli: finanziario, commerciale, economico, persino politico.
Il cambio di rotta della Fed non è una ipotesi peregrina. Anche perché da più parti si levano richieste circa un abbassamenti dei tassi di interesse. Le pressioni si sono rivelate in alcuni casi molto forti, come quelle esercitate dall’amministrazione Trump.
Sia chiaro, una svolta della politica monetaria sarebbe giustificata. In primo luogo, dai dati. Le ultime rilevazioni parlano di prezzi sostanzialmente fermi. Performance, queste, addirittura peggiori rispetto all’euro zona, che da anni combatte con una inflazione così bassa da essere quasi considerato come un fenomeno endemico e cronico.
Dunque, nel caso in cui il presidente Jerome Powell e il suo board dovessero optare per una politica monetaria espansiva, non ci sarebbe di cui stupirsi… Dal punto di vista logico. Sotto il profilo finanziario e degli investimenti, le conseguenze sarebbero comunque significative. Ne parliamo nel prossimo paragrafo.
Cosa succede se cambia la politica monetaria
In primo luogo, il mondo del Forex subirebbe conseguenze rilevanti. Soprattutto, molto banalmente, a livello di cambi monetari. Dal punto di vista tecnico, se i tassi americani vengono abbassati, sarebbe lecito aspettarsi un deprezzamento da parte del dollaro. Il cambio euro dollaro, quindi, salirebbe o viaggerebbe comunque a livelli più alti rispetto alle previsioni. Probabilmente rimarrebbe sopra 1,10.
Questa dinamica, a dire il vero di semplice comprensione, potrebbe essere messa in discussione dalle conseguenze lato policy making. I dubbi che stanno attanagliando la Fed riguardano, per ora in sottotraccia, anche la BCE. Anche la Banca Centrale Europea, nella persona del presidente Mario Draghi, sta pensando al ritorno della politica monetaria ultra-espansiva. Di certo, non ha completamente chiuso le porte al Quantitative Easing, e anzi ha dichiarato di recente che qualora il contesto economico lo richiedesse, il programma di allentamento monetario potrebbe essere rispolverato. Ora, è improbabile che in seguito a un abbassamento dei tassi da parte della FED, la BCE rimanga con le mani in mano. Dunque non è peregrina l’ipotesi secondo cui a un cambio di rotta della FED segua un cambio di rotta della BCE.
Certo, vanno verificati alcuni elementi. Il presidente che ha promosso il Quantitative Easing, ovvero Mario Draghi, sta per concludere il suo mandato. Il suo posto verrà preso da Christine Lagarde, che potrebbe non condividere le sue vedute (equilibrate certo) circa la politica monetaria.
Infine, l’allentamento della Fed potrebbe instaurare un effetto domino. La Banca Centrale Europea non sarebbe la sola a spingere verso una politica espansiva. Anzi, potrebbe essere seguita più o meno pedissequamente da altre banche centrali. D’altronde la Fed viene spesso vista come un punto di riferimento.
Nella peggiore delle ipotesi, ma al momento appare come uno scenario davvero improbabile, potrebbe scoppiare una piccola guerra di valute, sulla scorta di quella scoppiata nel 2013. Ovviamente, non dipende dal contesto globale, e non solo dal comportamento della Fed. Quest’ultimo, però, potrebbe far scoccare la scintilla.