Il Bitcoin ci ha abituato alle montagne russe. E’ un asset volatile, su questo non ci possono essere dubbi. In un certo senso, gli investitori hanno cominciato a prendere le misure e a imparare a sopportare queste dinamiche. Quando il gioco si fa veramente duro, però, ecco che i meccanismi di difesa smettono di funzionare e il mercato va in panico. Come nei primi di febbraio, quando il Bitcoin era sembrato sul punto di crollare definitivamente, sfondando (al ribasso, ovviamente) la quota psicologia degli 8.000 dollari, con risalita quasi repentina.
Come ci si fa difendere in questi momenti? Il consiglio principale è riconoscere i motivi della deprezzamento, riuscire a individuarli subito e tirare le debite conclusioni, che possono essere due: il crollo è momentaneo, il crollo è inserito in un solido trend ribassista. Nel primo caso, si conserva la posizione, nel secondo si vende. Fin qui, tutto semplice. Il problema sta nel riconoscere i segnali, nel capire – appunto – i motivi del crollo.
Forse un esempio, specie se si analizza un fenomeno nuovo come le criptovalute, è in grado di aiutare la comprensione più che mille parole. Quindi, prendiamo in esame proprio il crollo del 4, del 5 e del 6 febbraio che, a rigore di termini, appartiene alla prima categoria: quello dei crolli, per così dire, “contingenti”.
Il crollo di inizio febbraio
Il Bitcoin è in una fase discendente, inframezzata però da bruschi apprezzamenti. Lo è da metà dicembre, quando ha raggiunto un massimo che ha spiazzato tutti. Non c’è dubbio, però, che il crollo registrato dal 4 al 6 febbraio abbia assunto connotati preoccupanti, se non apocalittici. Il Bitcoin, infatti, dopo aver abbattuto la soglia psicologica degli 8.000 dollari, ha sfiorato quella dei 6.000. Poi, è risalito in maniera piuttosto intensa. Un crollo forte, come raramente se ne sono visti nell’ultimo anno, eppure molto semplice da leggere. Per aiutare la comprensione, ecco la lista dei motivi.
La presa di posizione della SEC
La SEC è l’organo di vigilanza degli Stati Uniti, quindi uno dei più importanti a livello globale. E’ ovvio che tutto quanto esce, fossero anche solo dichiarazioni, genera un grosso impatto nei mercati. Figuriamoci quando entra a gamba tesa. In effetti, ha fatto proprio questo: si è inserita nel dibattito sul Bitcoin, pronta a legiferare. Gli investitori si attendevano affermazioni circa una futura regolamentazione, e questo ha ispirato un forte calo della criptovaluta. Il tutto, però, si è conclusa con la pronuncia di un parere e la promessa che si occuperò del Bitcoin in un prossimo futuro.
Cosa ha deliberato la SEC? In primo luogo, ha espresso perplessità intorno alla criptovaluta, affermando la necessità di monitorarla, e nello specifico di creare dei sistemi per un controllo diffuso e costante nel tempo. Secondariamente, ha paventato la creazione di siti istituzionali di tipo informativo, volti a trasmettere alla massa tutte le conoscenze necessarie per investire senza correre più rischi del dovuto. Infine, ha preso tempo. In linea di massima, non ha espresso un parere granché negativo, e anzi ha comunicato un senso di apertura. Ma tant’è: la sola notizia che la SEC si stesse occupando del Bitcoin ha messo in ansia i mercati.
L’aggressività della Cina
Ben diversa la mossa della Cina. Alcuni, non a caso, parlano di guerra totale al Bitcoin. Sia chiaro, non è la prima volta che il colosso asiatico sta cercando di vietare l’utilizzo della criptovaluta, ma con le dichiarazioni recenti l’ostilità ha raggiunto un livello successivo. “Per prevenire rischi finanziari, la Cina incrementerà misure per rimuovere qualsiasi piattaforma onshore e offshore relativa al trading di valuta virtuale o alle ICO” ha tuonato il Governo. Specificando poi che “Le piattaforme di transazioni in valuta virtuale saranno chiuse non appena verranno trovate”.
L’effetto di queste parole è stato devastante, anche perché la Cina ha praticamente una tradizione alle spalle per quanto riguarda l’utilizzo delle criptovalute. Si pensi che fino all’anno scorso il 90% delle transazioni proveniva dal paese asiatico, mentre questa percentuale è scesa all’1%. Sullo sfondo, la paura per i meccanismi piramidali (Schema Ponzi) e per le classiche frodi.
Lo stop di Draghi
Anche Mario Draghi ha influito sul crollo del Bitcoin. La sua autorevolezza non può essere messa in discussione, e nemmeno la forza che si accompagna alle sue parole. E’ bene ricordarlo: ha salvato l’euro a forza di dichiarazioni, il ché dimostra come la sua voce sia presa enormemente in considerazione dagli investitori.
Ebbene, anche lui ha tuonato contro il Bitcoin, seppure con il consueto garbo e la tradizionale diplomazia. Lo ha fatto durante un discorso al Parlamento Europeo. Ha iniziato definendo le criptovalute un investimento ad alto rischio e non regolamentato, descrivendo comunque un dato di fatto.
Quel che è peggio, almeno secondo i sostenitori del Bitcoin duro e puro, ha promesso un intervento. Secondo il presidente della BCE, l’esordio dei futures sui Bitcoin negli Stati Uniti ha sparigliato le carte in tavola e sta imponendo la necessità per la Banca Centrale di “esaminare” la questione, anche alla luce della crescente presenza della criptovaluta nei portafogli delle banche europee.
Le banche sugli scudi
Fin qui, parole e minacce più o meno velate. Chi è passato alle maniere forti sono le banche inglese. Più di recenti, Lloyds Banking Group, che ha vietato acquisiti in Bitcoin con le sue carte. Lo scopo è di evitare che i clienti si indebitino investendo sulla criptovaluta, fino a mettere in pericolo la sostenibilità dell’assetto bancario. Il divieto è già operativo, quindi si è passati dalle parole ai fatti.
Va detto, però, che il ban riguarda esclusivamente le carte di credito. Quelle di debito, i classici Bancomat, funzionano in maniera diversa, erodendo direttamente le risorse del conto bancario, e non possono – a meno di fidi – andare in negativo.
Il provvedimento, comunque, ha avuto un impatto clamoroso, considerando anche che è giunto in concomitanza di altri segnali molto negativi, e di commenti non proprio lusinghieri da parte delle istituzioni.
Le caratteristiche strutturali del Bitcoin
I fattori elencati, che hanno impattato praticamente in contemporanea, sono stati in qualche modo potenziati ed esacerbati da alcune caratteristiche strutturali del Bitcoin.
In primo luogo, dall’assenza di un qualsiasi bene materiale che funga da controvalore. Il Bitcoin è frutto delle dinamiche di domanda e offerta, e alla fine, solo di quelle (dal punto di vista tecnico). Non c’è nessun ente dietro che possa curarne le distorsioni, che possa mettere una pezza. Non stupisce, quindi, che l’unica arma in mano agli investitori quando le cose vanno male, e si pensa che continueranno a farlo, sia vendere. In questo modo, è quasi inutile specificarlo, si entra in un circolo vizioso che spinge il prezzo sempre più.
Sia chiaro, queste caratteristiche non hanno causato il crollo, hanno solo esacerbato una dinamica già in atto.
Cosa ci insegna il crollo di febbraio
E’ evidente il senso del crollo: le istituzioni e gli istituti si sono rivoltati contro il Bitcoin, in maniera quasi unanime – pur rimanendo nell’alveo di quanto era loro concesso, per ruolo e responsabilità. Se alcune iniziative suscitano comunque una qualche perplessità, altre invece erano scontate: prima o poi dovevano essere prese. Siamo quindi nel campo delle contingenza, non della struttura. Il Bitcoin, quindi, è sceso per l’ondata di paura che è seguito alle dichiarazione di questo o quel presidente, agli stop imposti da qualche banca. Il consiglio, alla luce di quanto accaduto a febbraio, è di mantenere i nervi saldi, e di aspettare, senza farsi cogliere dalla frenesia della vendita: prima o poi il mercato sconterà, proprio dal punto di vista emotivo, e recupererà il terreno perduto.