Il Bitcoin sta facendo parlare di sé per le sue incredibili performance di mercato, per un tasso di crescita come mai se ne sono visti da qualche secolo a questa parte. Secondo la maggior parte degli analisti, la corsa del Bitcoin, almeno in questi termini, è un fenomeno temporaneo. Prima o poi, rallenterà o addirittura ritraccerà pesantemente quanto guadagno in questi mesi. In parole povere, acquisirà la sua vera dimensione. La domanda da porsi quindi è: qual è questa dimensione? Qual il vero volto del Bitcoin, quello che mostrerà a freddo, quando questo periodo “anomalo” terminerà? Ha risposto a questa domanda Teunis Brosens, Principal Economist di ING, che ha pubblicato un paper dal titolo emblematico: “Perché il Bitcoin è destinato a diventare un asset di nicchia” (in inglese, lingua in cui è stato scritto il paper: Why Bitcoin is destined to become aniche asset).

In questo articolo sviscereremo questo paper, che appare molto interessante in quanto fa chiarezza su una situazione che, per quanto positiva (il Bitcoin cresce a ritmi spaventosi) rischia di disorientare piccoli e grandi investitori.

Il vero valore del Bitcoin

Teunis Brosens è chiaro fin dalle prime righe: nel lungo periodo, il Bitcoin ha poco da offrire alla massa degli investitori. Probabilmente, ritornerà da dove è venuto, ossia diventerà un prodotto di nicchia per un ristretto gruppo di appassionati. La chiave sta nei vantaggi connessi al Bitcoin, i quali, pur destando parecchio interesse, potrebbero rappresentare un ostacolo nella prospettiva di una diffusione ampia e duratura di questo asset. Inoltre, il valore del Bitcoin, oggi altissimo, si basa non su fondamentali strutturali, bensì su elementi instabili. L’instabilità del Bitcoin è simboleggiata dal fatto che, dopotutto, si appoggia a una piattaforma opensource, quindi ampiamente editabile. Si spiegano così le due hard fork messe in piedi nel giro di quattro mesi, le quali hanno dato vita a Bitcoin Cash e Bitcoin Gold. Se questo “dettaglio” può sembrare una dimostrazione di forza, in quanto simbolo della capacità della criptovaluta di rispondere alle esigenze esterne e rinnovarsi, alla lunga dona una certa instabilità al progetto.

Alla luce di questa instabilità, ben rappresentata per altro da un mercato in continua crescita, la domanda “qual è il vero valore del Bitcoin” risulta più legittimata che mai.

Brosens, prima di tutto, tiene a descrivere il profilo dell’investitore medio del Bitcoin nel prossimo futuro, a passioni sopite. Commerceranno in Bitcoin i fanatici della tecnologia (e in particolare della tecnologia Blockchain, le persone ossessionate dalla privacy, gli investitori terrorizzate dall’inflazione e dalla paura di una svalutazione delle monete tradizionali, hater di istituzioni e banche centrali.

Brosens, successivamente, individua un termine di paragone, un asset al quale il Bitcoin possa essere comparato. A giudicare dalla redditività, il Bitcoin potrebbe essere comparato a un prodotto ad alto rischio, come un titolo azionario o una obbligazione sui generis. A ben vedere, però, gli elementi in comune finiscono qui. Dietro un’azione o una obbligazione c’è sempre una realtà strutturata, che attraverso le sue performance nell’economia reale incide sul valore del titolo. Nel Bitcoin non c’è niente di tutto questo. Quindi, non rimane che paragonarlo a quello che dice di essere: a una valuta. Il paragone, da certi punti di vista, regge anche se si contano grosse differenze. Tra queste, la celebre assenza di una banca centrale. A suppore il Bitcoin, a mo’ di sottostante, non rimane che l’opinione che l’investitori hanno di esso, la fiducia che gli prestano. Ciò vuol dire che se in un prossimo futuro il Bitcoin non venisse più percepito come strumento di investimento efficace, il suo valore potrebbe scendere a zero. Eventualità, questa, che non riguarda le valute tradizionali, le quali sono sorrette (oltre che da un uso pratico e diffuso) dalle politiche della banca centrale.

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Questa è palesemente la peggiore delle ipotesi. Si potrebbe invece considerare la migliore delle ipotesi. Quella avanzata da Brosens, parla di un Bitcoin che, in un prossimo futuro, abbia conquistato stabilmente una quota dei pagamenti a livello globale, diciamo pari o superiore all’1%. Considerando che in un anno si muove denaro “stretto” (banconote, transazioni online etc.) per 30,14 trilioni di dollari (per intenderci quasi 15 volte il debito pubblico italiano), il Bitcoin si assesterebbe intorno ai 18.000 dollari a “pezzo”. L’analista di ING affronta un altro scenario, puramente speculativo perché quasi totalmente irrealistico, ossia che il Bitcoin conquisti la totalità dei pagamenti. Tutti i pagamenti e le transizioni in questo scenario verrebbero eseguiti in Bitcoin. In questo caso, varrebbe 1,7 milioni di dollari.

Possiamo quindi pensare a 1,7 milioni di dollari come la quotazione massima ipotizzabile (però solo sulla carta), e 18.000 dollari come quotazione nel caso in cui le cose andassero in maniera verosimile ma comunque molto bene. Si parla, sia chiaro, di valore stabile, in quanto il Bitcoin a fine 2017 ha già superato i 20.000 dollari.

Il lettore potrebbe pensare: è fatta! 18.000 dollari sono comunque tantissimi e, visto che è necessario una “quota di mercato” di appena l’1%, il Bitcoin non dovrebbe incontrare grosse difficoltà nel raggiungimento di questo obiettivo.

La verità è un’altra: il Bitcoin ha delle caratteristiche così particolari da rendere estremamente difficile, al limite della verosimiglianza, anche l’obiettivo dell’1%. L’analista di ING le ha illustrate in maniera molto accurate. Tali caratteristiche hanno a che vedere con la tecnologia di fondo, ma in alcuni casi sono il riflesso di alcune scelte di campagne, che potrebbero essere definite arbitrarie o addirittura ideologiche.

Perché il Bitcoin non diventerà mai “di massa”

Il primo motivo risiede nella regolamentazione. La natura decentralizzata del Bitcoin è uno dei suoi tratti distintivi, per quanto condiviso con le criptovalute in generale. Tuttavia, è anche il suo tallone di Achille. Il Bitcoin, infatti, disegna una rete di pagamenti quasi del tutto anonima, transnazionale, assolutamente indipendente dal volere delle istituzioni. Indipendenza da un lato, poca sicurezza dall’altro. Brosens ne consegue che affinché il Bitcoin abbia una piccola chances di diventare uno strumento di massa, e soprattutto di diventarlo in maniera definitiva e strutturale, deve essere cooptato nel mercato regolamentato. Anche così, però, le cose potrebbero andare male.

In primo luogo, perché ciò ridurrebbe il suo appeal, in quanto comprometterebbe il concetto di privacy. Secondariamente, perché anche se regolamentato ufficialmente, nei fatti lo sarebbe in maniera non sufficiente, in quanto rimarrebbe un asset decentralizzato, senza una istituzione alle sue spalle. Immaginando lo scenario inverso, ossia un Bitcoin che continua a essere non regolamentato (anche ufficialmente), le conseguenze sarebbe quasi certamente disastrose. Ipotizziamo un crollo repentino del Bitcoin, con successiva perdita (drastica) di ricchezza da parte dei detentori. I governi, in questo caso, potrebbero prendere provvedimenti, limitandone l’uso o addirittura vietandola. Sarebbe allora la fine del Bitcoin.

Il secondo motivo risiede nella mancanza di un intermediario. Quando si maneggia una qualsiasi valuta tradizionale, il titolare può fare riferimento a uno o più intermediario, per esempio la banca. Per il Bitcoin è diverso. I Bitcoin vengono detenuti all’interno di e-wallet, ossia dei portafogli elettronici, che offrono molte meno garanzie del banalissimo conto corrente. Non c’è un ente con cui interfacciarsi, che possa offrire assistenza. E’ tutto nelle mani del titolare. Ciò vuol dire che se compie qualche errore, non può rimediare. Per esempio, se perde le password. Nella vita reale, se una persona perde il PIN (facciamo un esempio) della propria home banking, può rivolgersi alla banca e vedersi assegnato un nuovo PIN. Questa è la situazione attuale. Ciò non toglie che in futuro non possa cambiare nulla. Anzi, già oggi alcuni soggetti di intermediazione si sono fatti avanti e hanno creato servizi dedicati a chi vuole detenere Bitcoin in modo non solo sicuro e anonimo, ma anche “assistito”.

Terzo motivo: la lentezza delle transizioni. Qui c’entra il meccanismo delle Blockchain. Quando avviene una transizioni in Bitcoin, vengono elaborato contestualmente tutte le transizioni che stanno avvenendo in quel momento, dal momento che la Blockchain altro non è che un registro condiviso. Questo metodo garantisce sicurezza ma è anche estremamente macchinoso. A dire il vero, questo problema potrebbe essere bypassato in futuro attraverso un processo di limatura della tecnologia Blockchain. Attualmente, però, anche nel migliore dei casi, i tempi di transazioni non solo del Bitcoin ma anche di tutte le altre criptovalute non possono essere paragonate ai tempi di transizione delle valute tradizionali, tranne il Ripple.

Il quarto motivo è a volatilità. Secondo l’analista di ING, il Bitcoin per diventare di massa deve trasformarsi in mezzo di pagamento. Tuttavia, per imporsi come mezzo di pagamento deve essere stabile. Brosens presenta il problema con una metafora simpatica: “Un mondo in cui con i tuoi soldi compri un enorme cappucino oggi, ma un piccolo caffè espresso domani, non è per nulla conveniente”. Se ad alcuni fa paura una inflazione di pochi punti percentuali, figuriamoci le incredibili oscillazioni del Bitcoin. Certo, per ora queste oscillazioni hanno portato sempre a un lieto fine, ossia a un apprezzamento della valuta, ma in un prossimo futuro? Se il problema è grave per chi con i Bitcoin vorrebbe acquistare beni di consumo, il problema diventa gigantesco per chi, in un prossimo futuro, vorrebbe utilizzare il Bitcoin per produrre investimenti nell’economia reale. Già il semplice rischio di cambio atterrisce gli investitori, figuriamoci la volatilità del Bitcoin.

I sostenitori della criptovaluta indicano la volatilità come un falso problema, o come minimo un problema destinato a scomparire una volta che la platea di titolari di Bitcoin avrà raggiunto una massa critica. Dal punto di vista teorico, una stabilizzazione a queste condizioni è possibile, ma c’è da considerare la caratteristica di fondo: l’assenza di una qualsiasi istituzione (es. banca centrale) che possa orientare l’offerta e quindi controllare i prezzi.

Il quinto motivo è spesso trascurato dagli analisti ma ha un suo impatto: il consumo di energia. L’offerta di Bitcoin è decentralizzata e per di più automatica. Lo strumento è il mining, che diventa progressivamente più costoso con l’aumentare della liquidità in circolo. Attualmente, per minare un solo Bitcoin sono necessarie potenze di calcolo incredibile, che per funzionare necessitano di dosi estremamente massicce di energia. Se non si interviene sul mining, le cose andranno sempre peggio. Il mercato richiederà più Bitcoin, le attività di mining si intensificheranno, sempre più energia verrà consumata. Questo è un modello oggettivamente poco sostenibile.

Infine, la difficoltà del Bitcoin di adattarsi alle esigenze esterne, di rinnovarsi. Può sembrare un controsenso, se si pensa che solo negli ultimi mesi sono state realizzate due hard fork. Va detto, però, che esse sono state al centro di un aspro dibattito, per giunta estremamente lungo e logorante. Le hard fork non sono state decise certo dalla sera alla mattina. Il problema sta nel fatto che il network di sviluppatori è brava a modificare i codici, ma un po’ meno bravo a trovare accordi e a organizzarsi. Il problema è che mancano regole che disciplinino i processi di modifica. Anche questa è una conseguenza della decentralizzazone, concetto declinato in maniera estesa, e che in questo caso sfocia nella acefalia.