Le criptovalute se la sono vista brutta questa estate. Per un paio di mesi, e in particolare a luglio e ad agosto, è sembrato che il mondo crypto dovesse collassare da un momento all’altro. C’è chi addirittura ha agitato lo spettro della bolla dei tulipani del Seicento (il primo caso di speculazione finanziaria sfociato nel dramma collettivo), con la forza di chi aspetta il compimento di una profezia.

In effetti, gli elementi per pensare in negativo c’erano tutti. In tre mesi, da metà maggio a metà agosto, il Bitcoin ha fatto registrare un calo del 27%. Nel solo mese di agosto, secondo gli analisti, inoltre, sono stati bruciati qualcosa come 110 miliardi di capitalizzazione. Poi, come è più volte accaduto negli ultimi anni, in maniera inspiegabile (ma fino a un certo punto), le criptovalute sono rinate dalla proprie ceneri, se di resurrezione e di ceneri si può parlare. A fine agosto, il comparto appariva già in salute, o almeno in forte ripresa.

La paura, però, c’è stata. Dal momento che il crollo è stato comunque uno dei più pesanti in tutta la storia delle criptovalute, vale comunque la pena di interrogarsi sui motivi, in modo da prevedere un eventuale futuro calo, al riproporsi delle medesimi condizioni. Di seguito, illustriamo proprio i probabili motivi che hanno determinato l’ultimo flop “estivo” delle criptovalute.

L’altolà della SEC

Va detto che, fino ad adesso, la SEC, ovvero il massimo istituto di vigilanza finanziaria negli Stati Uniti, ha approcciato al mondo delle criptovaluto in modo neutro, oggettivo, senza farsi coinvolgere dal furore ideologico che invece sta accecando altre realtà istituzionali. Tuttavia, pur nell’esercizio delle sue funzioni (ci mancherebbe) anche la SEC potrebbe aver avuto un ruolo nel crollo estivo delle criptovalute.

Il riferimento è al parere negativo espresso dalla SEC circa due ETF a base Bitcoin proposti dai Winklevoss. Qualche giorno dopo, poi, e nello specifico i primi di agosto, la SEC aveva rimandato a settembre il giudizio su altri ETF a base Bitcoin, questi però proposti dalla società di investimento VanEck e dalla startup SolidX.

Un chiaro segnale negativo, o addirittura un passo indietro, nella prospettiva di istituzionalizzazione delle criptovalute. Prospettiva finalizzata ad agire su quello che è considerato il punto debole delle valute virtuali: l’autorevolezza.

ICO all’incasso

Uno dei motivi del crollo estivo potrebbe essere rintracciato in una dinamica fisiologica, per quanto sottostimata dalle previsioni, riguardante le ICO. Molto banalmente, le società sviluppatrici di ICO avrebbero battuto casa – a partire dai gennaio ma soprattutto nei mesi estivi. Ovvero, avrebbero cercato di recuperare parte del denaro speso in fase di sviluppando vendendo le valute diventate ormai operative in cambio del dollaro, che è senz’altro è una moneta “più sonante”.

L’ondata di vendite, che non è comunque balzata agli onori della cronaca, avrebbe provocato un classico quanto fisiologico effetto domino, che avrebbe danneggiato il mercato nel suo complesso. Ovviamente, non è possibile spiegare il crollo solo con il comportamento (ripetiamo, fisiologico e legittimo) delle società di ICO, ma è senz’altro un fattore da prendere in considerazione.

La fase del mercato

Per mercato, in questo caso, non si intende il mercato delle criptovalute. O, per meglio dire, non si intende solo il mercato delle criptovalute. Bensì, il mercato nel suo complesso. Il mondo crypto, insomma, avrebbe sofferto della fase “orso” che sta coinvolgendo l’azionario, l’obbligazionario, le materie prime, il Forex etc.

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Se si considera valido questo motivo, è impossibile non fare due considerazioni, apparentemente in contraddizione.

Uno: le criptovalute sono, dopotutto, asset normali. Sono ben calate in un contesto, e ne soffrono l’influenza proprio come le azioni, le obbligazioni, le materie prime etc. Se il mercato è “bear”, anche le criptovalute lo sono, e viceverse.

Due: le criptovalute non sono asset normali. Se da un lato questa interdipendenza offre una percezione di normalità, che comunque è tutt’altro che illusoria, dall’altro lato gli effetti di tale interdipendenza tradiscono la natura “speciale” delle criptovalute. Insomma, rivelano una estrema suscettibilità delle criptovalute a tutti gli stimoli, compresi quelli esterni.

I pareri negativi di Google e Apple

A luglio, sia Google che Apple hanno espresso un parere negativo circa i Bitcoin. Un parere, vale la pena di specificarlo, non esplicito, ma evidente se si considerano i “niet” imposti alle società che sviluppano le app.

Nello specifico, i due colossi americani hanno pubblicato delle linee guide in cui si vieta lo sviluppo di applicazioni per smartphone finalizzate al mining di Bitcoin. A dire il vero, la prima a esprimersi in questo senso è stata Apple, seguita a stretto giro (e comunque a fine luglio) da Google.

Il rifiuto non è stato accompagnato da un giudizio di merito, ovvero da un’opinione sullo strumento criptovalutario in sé. Ciononostante, i divieti potrebbero essere stati intesi proprio in questo modo.

In ogni caso, un pessimo segnale per tutto il mondo delle criptovalute. Un segnale che va nella direzione opposta alla conquista di una autorevolezza auspicata, pur in una prospettiva di completa indipendenza, in primo luogo dal Bitcoin e poi da tutte le altre valute virtuali.

L’offensiva dei governi

A dire il vero, da questo punto di vista si segnala una certa calma piatta. Con una sola eccezione… Peccato che tale eccezione sia però pesantissima. Il riferimento è alla Cina, che certamente non è nuova a offensive contro il mondo delle criptovalute, ma che negli ultimi mesi è entrato, se possibile, ancora di più nel vivo.

In particolare, ad agosto si sono verificati i seguenti fatti.

WeChat (piattaforma di messaggistica cinese) ha bloccato numerosi canali accusati di contenere informazioni sulle ICO

Il governo di Pechino ha vietato qualsiasi evento “fisico” (es. conferenze) riguardante non solo il mondo delle criptovalute, ma anche quello delle blockchain.

Cinque enti di regolamentazione cinesi hanno pubblicato una lettera congiunta in cui si condannavano le “raccolte fonde di criptovalute” (le ICO?), giudicate “apertamente illegali”.