Il rapporto tra fisco e trader di criptovalute è abbastanza controverso. Non per un tentativo dei trader di evadere le tasse, quanto per la generica difficoltà dei vari regimi fiscali di tenere il passo con le innovazioni… E non c’è alcun dubbio che il trading di criptovalute sia innovativo, e per giunta in continua evoluzione.

Queste dinamiche non risparmiano nemmeno il contesto italiano, dal momento che il fisco nostrano non è notoriamente tra i più veloci. Tuttavia, la situazione, per quanto complessa, è più definita di quanto possa sembrare. Ne parliamo in questo articolo.

Fisco italiano e criptovalute: buco legislativo?

La domanda è più che legittima. Non è raro, infatti, che il fisco italiano si sia trovato indietro rispetto alla realtà in cui opera. Pensiamo solo alla massa di nuove professioni digitali che sono emerse di recente, e alla difficoltà di inquadrarle in una cornice fiscale. In realtà, si tratta di una dinamica tutto sommato fisiologica, almeno entro certi limiti. Non è detto sia il fisco italiano a essere lento, potrebbe anche darsi che sia il mondo ad essere troppo veloce, o almeno l’evoluzione delle attività digitali. E, di nuovo, non c’è dubbio che il trading di criptovalute sia un’attività digitale.

Certo, sono le stesse criptovalute a metterci del proprio. Il riferimento è alla loro permanenza nella zona grigia degli investimenti.

Cosa sono in realtà le criptovalute? Valute vere e proprie? Mezzi di pagamento? Strumenti speculativi? Normali asset di investimento? Una risposta chiara e inequivocabile non c’è. In primis, perché si basano su una struttura innovativa e su tecnologie altrettanto inedite; secondariamente perché, appunto, sono in continua evoluzione.

Ora, per sottoporre una qualsiasi attività a un regime fiscale, è bene che questa attività sia ben definita, circoscritta. Purtroppo, il mondo crypto non risponde ancora a questi criteri. Il risultato è un contesto legislativo davvero variegato e variopinto. In parole povere, ciascuno stato si sta muovendo in autonomia, offrendo una interpretazione personale. Anche in questo contesto, però, la scelta dello stato italiano fa discutere, e si pone a un livello di extra-ordinarietà. Ne parliamo nel prossimo paragrafo.

Un’anomalia tutta italiana

In linea di massima, sono in pochi a considerare le criptovalute come valute reali, benché digitali. Questo è dovuto alle dichiarazioni delle autorità monetaria, che hanno spesso e volentieri descritto le criptovalute come semplici asset di investimento, tra l’altro caratterizzate da un rischio elevato. Ma è dovuto anche a una semplice constatazione: attualmente, sono ben pochi i beni che possono essere acquistati con Bitcoin e affini. Ancora di meno sono le situazioni in cui è consentito pagare con le criptovalute. Inoltre, sono decisamente troppo volatili, in un senso e nell’altro, per essere considerati mezzi di pagamento.

In questo contesto, lo stato italiano ha fatto un salto non indifferente, ponendosi in una posizione diversa dalla maggior parte degli altri paesi. Badate bene, non sbagliata, semplicemente diversa. Come già specificato, la situazione è ancora ammantata da un velo di incertezza, e le interpretazioni sostituiscono i dati di fatto.

A cosa ci riferiamo? Semplice, alla risoluzione n. 72 / E / 2016 dell’Agenzia delle Entrate. Tra parentesi, le risoluzioni sono pronunciamenti con cui l’Agenzia delle Entrate definisce situazioni poco chiare, esplorate in maniera troppo abbozzata dall’attuale legislazione. Dunque, hanno un valore di legge, di regola permanente (o almeno fino a contrordine) un po’ come accade con le sentenze della Cassazione.

Ebbene, con questa risoluzione l’Agenzia delle Entrate ha equiparato le criptovalute alle valute estere. Dunque, ha assegnato alle criptovalute lo status di valuta reale.

Questa risoluzione si combina con l’attuale legislazione, e in particolare con l’art. 3 del decreto legge del 24 aprile 2014 n. 66 e con il decreto del Presidente della Repubblica del 22 dicembre 1986 n. 917, anche detto Testo Unico delle Imposte sui Redditi.

Cosa ne esce fuori? Un quadro abbastanza definito, una guida per i trader di criptovalute e… Qualche paradosso.

Come dichiarare i guadagni e pagare le tasse

In buona sostanza, le due norme sopracitate disciplinano il possesso di valuta estera, stabilendo alcune situazioni di esonero dal pagamento di imposte.

In buona sostanza, è possibile detenere valuta estera e non essere tassati, a patto che la si converta entro sette giorni, ovvero che la si detenga per non più di sette giorni. Inoltre, questo deposito in valuta estera deve avere un valore non superiore a 51.645,69 euro. Tra parentesi, i sette giorni devono essere lavorativi e continui.

In caso contrario, le eventuali plusvalenze, ovvero il famigerato capital gain, deve essere tassato al 26%.

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Tutto ciò provoca delle conseguenze a cascata, alcune buone e altre positive. In buona sostanza, è sufficiente non produrre depositi in “valuta estera” (quindi in criptovaluta) superiori a 51.645,69, per evitare di essere tassati.

Tuttavia, si segnala anche un piccolo paradosso e qualche incertezza. La domanda sorge spontanea: quale tasso di cambio utilizzare? Tutte le criptovalute sono molto volatili, aleatorie, da un giorno all’altro le quotazioni si possono muovere anche di parecchi punti percentuali. Senza contare il fatto, poi, che nessuna criptovaluta è quotata nei mercati regolamentati.

Tutto ciò, sia chiaro, vale solo se si fa trading con gli Exchange, ovvero se si compra e si vende criptovaluta reale. Non è una differenza di poco conto: se si fa trading con l’alternativa, ovvero con i CFD, non si commercia realmente in criptovalute, bensì in prodotti derivati. In questa fattispecie vale la regola del 26% (capital gain) sempre e comunque.

Il consiglio, comunque, è di farsi seguire da un esperto, da un commercialista che sappia di transazioni finanziarie, che abbia maturato una certa competenza nel trading. Per la persona comune, e per il trader che non vorrebbe fare altro che investire, è tutto molto complicato. E’ facile sbagliare… Con tutte le conseguenze del caso (es. gli accertamenti fiscali).