Il debito pubblico è uno dei macigni che pesano sul futuro dell’Italia. Spesso però viene citato come arma a uso e consumo dei politici, a volte però ad esso si fa riferimento nella maniera corretta, ovvero come a un problema da affrontare. Di tanto in tanto, il debito pubblico torna alla ribalta, fungendo un po’ da spauracchio per le speranze degli italiani. In genere torna in auge quando la crescita scarseggia, in quanto per un meccanismo automatico e aritmetico, è proprio in questi momenti che il debito pubblico sale, almeno in percentuale (ma anche in senso assoluto).

Insomma, vi è il timore, o il terrore, che l’Italia possa fallire a causa del suo debito pubblico. Lo spettro del fallimento è destinato ad acquisire concretezza o è, appunto, solo uno strumento? Nell’articolo che segue rispondere a questa domanda, spiegando a grandi linee come funziona il debito italiano e proponendo una riflessione circa il futuro prossimo e remoto dell’Italia.

La situazione del debito pubblico italiano

Iniziamo con una nota dolente. Nonostante gli sforzi più o meno convinti della classe politica italiana, nonostante il freno alla spesa pubblica che redditi di cittadinanza a parte, vede spesso come vittime illustri la Sanità, la Scuola, la Sicurezza e il pubblico impiego, il debito è in continua ascesa. Certo, di tanto in tanto, da un mese all’altro si sente parlare di una contrazione di un paio di miliardi, ma è poca cosa rispetto al trend generale in ascesa e, soprattutto, all’immenso stock. Attualmente, il debito pubblico ha superare i 2.400 miliardi, ed è ben oltre il 130% del Prodotto Interno Lordo.

Per giudicare la sostenibilità di un debito, però, è necessario guardare anche alla sua composizione. In realtà, da questo punto di vista, potrebbe andare peggio, anzi sicuramente negli anni passati la situazione era più sconfortante.

Nello specifico, le banche centrali detengono il 22% dell’intero debito italiano, gli operatori nazionali detengono il 53%, mentre gli operatori stranieri detengono il 33% (ovviamente ci sono anche altri attori, di cui però non faremo menzione). Ciò significa che “solo” un terzo del debito è detenuto da realtà estere. Questo è un dato positivo. In primis perché nel 2006, solo 14 anni fa, questa percentuale era al 42%, secondariamente perché un debito più è “estero” più è pericoloso. Questo perché, nella peggiore delle ipotesi, ovvero in caso di rischio concreto di insolvenza, gli operatori esteri fanno fatica ad accettare ristrutturazioni, ovvero tagli del debito stesso.

Una dinamica, questa, che risulta evidente se si guarda altrove. Il debito giapponese, per esempio, è superiore al 200% del PIL, ma è giudicato molto più sostenibile di quello italiano in quanto “poco estero”.

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Il concetto di fallimento di uno Stato

Uno Stato può fallire? Sì, ma la sua bancarotta ha poco a che vedere con quella di una impresa. Questa piccola grande verità confligge con l’immaginario collettivo che paragona, soprattutto nei discorsi politici, lo Stato a un’azienda. Sono due realtà completamente diverse e che hanno poco a che fare l’una con l’altra.

Partiamo da un punto preciso: quando uno Stato dichiara bancarotta, vuol dire che dichiara insolvibile il suo debito, ovvero “decide” (ma è una decisione forzata) di non pagare il suo debito. Ciò accade, molto banalmente, quando non trova chi compri i suoi titoli di Stato. Casomai non lo sapeste, insomma, il debito si ripaga con altro debito, in linea di massima, per quanto sia possibile e anzi auspicabile ridurlo. Quando lo si riduce, molto banalmente si ripaga un titolo di Stato attingendo alla normale contabilità dello Stato, all’avanzo di bilancio, senza inserire la cifra in un’altra asta.

Ma cosa succede quando uno Stato “fallisce”? (a questo punto le virgolette sono d’obbligo). Ne parleremo più approfonditamente nel prossimo paragrafo. In questo, per concludere, riportiamo ciò che non accade. Ovvero, non accade nulla di quello che caratterizza i fallimenti di un imprenditore. Non c’è nessun bene che viene pignorato, nessun esproprio. Se un paese creditore si impossessasse di beni di un paese debitore sarebbe, d’altronde, un vero e proprio atto di guerra….

Quando uno Stato fallisce: le conseguenze

Quando uno Stato dichiara la bancarotta è comunque una piccola catastrofe. E più è grande il paese più è grande il pericolo per il resto del mondo. In primis, perché, molto banalmente, i paesi creditori si troverebbero privati di risorse finanziarie, con tutto ciò che ne consegue per le loro performance economiche e finanche per la possibilità di garantire i servizi. In secundis, per lo stesso paese “fallito”.

Nell’immediato, ma proprio nell’immediato, il paese trarrebbe sollievo dal fatto di non dover pagare più debito e interessi, ma quasi subito si affaccerebbe un problema colossale, e si tornerebbe punto e a capo, anzi in una situazione molto peggiore della precedente: l’impossibilità di trovare finanziatori.

D’altronde, chi presterebbe denaro a un paese che ha appena azzerato tutti i suoi debiti e quindi i crediti altrui? Pochi, o nessuno, proprio come nessuna banca è disposta a prestare a un cattivo pagatore conclamato. Prima di riacquisire fiducia, passerebbero mesi o anni. Periodo nel quale il paese si troverebbe impossibilitato a finanziare persino i suoi servizi basilari, se non attraverso la famigerata stampa della moneta, che però in questo caso porterebbe a iperinflazione quasi certa.

Per questo motivo i paesi che falliscono sono davvero pochi e, se si esclude l’Argentina, praticamente dei paesi “grandi” non è fallito nessuno negli ultimi decenni. In genere, se proprio è destino che si arrivi alle estreme conseguenze, si giunge a un percorso condiviso per quanto doloroso per entrambi, ovvero a una ristrutturazione (taglio del debito) più o meno concordato.

Perché è improbabile che l’Italia fallisca

In realtà, è improbabile che almeno per ora l’Italia possa fallire. Lo è per tutta una serie di motivi. In primo luogo, perché i fondamentali italiani sono abbastanza solidi: lo stock di debito non è l’unico parametro che gli investitori prendono in considerazione, e una crescita moderata unita a un mercato del lavoro arrancante è troppo poco per azzerare la fiducia degli investitori.

Secondariamente, perché l’Italia, pur meritando certamente più supporto di quello che ha al momento, non è sola. Nella stessa barca si trovano altri paesi europei, e al timone c’è la Banca Centrale Europea. Il varo del Quantitative Easing (il secondo in cinque anni) ne è la dimostrazione. Infatti, il Quantitative Easing non è altro che l’acquisto di debito senza garanzie, senza interessi e sostanzialmente “a babbo morto” dei titoli di debito pubblico da parte della banca centrale. In buona sostanza, l’Italia, come tanti altri paesi, diventa debitore della BCE, che però è un creditore che “per definizione” è abbastanza accomodante.