Il Bitcoin, si sa, è un asset volatile. Esattamente come tutte le altre criptovalute. La volatilità è il tratto distintivo delle valute virtuali che, com’è noto, vantano una governance rarefatta, decentralizzata, priva di un meccanismo solido di controllo dell’offerta.
Non è raro, quindi, assistere a svalutazioni repentine, magari seguite da altrettanto rapide rivalutazioni. Quello che è accaduto tra il 14 e il 20 novembre, però, rischia di segnare un punto di svolta. Ovviamente negativo: nel giro di una settimana il Bitcoin ha perso qualcosa come il 30% del suo valore. In pochi giorni ha raggiunto il minimo da oltre un anno, portandosi a 4.500 dollari.
C’è da preoccuparsi? Se si guarda allo storico, si ha la sensazione che questo crollo possa in qualche modo essere assimilato ai tanti crolli che il Bitcoin ha subito nel corso degli ultimi due anni, periodo durante il quale è definitivamente salito alla ribalta passando rapidamente da 1.000 a 17.000 dollari.
Tuttavia, se si analizzano le cause principali del crollo, si trae una conclusione diversa. Ovvero che questa ennesima svalutazione possa generare conseguenze strutturali, o comunque a lungo termine.
Ecco le cause principali del crollo e una riflessione sul loro carattere “strutturale”.
Rottura di una fase laterale
Lo abbiamo accennato: il Bitcoin è un asset molto volatile. In genere, questa volatilità è accettata dagli investitori e considerata, entro certi limiti, fisiologica per quella specifica asset class. Tuttavia è innegabile che il mondo crypto sia alla ricerca di una maggiore stabilità, anche nell’ottica di accreditamento presso le istituzioni, le quali paventano interventi di regolamentazione. Questa è, tra le altre cose, una chiave di lettura per spiegare l’esordio del Bitcoin nel mercato dei feature.
Dunque, per quanto il prezzo fosse ben lontano dai risultati raggiunti l’anno scorso, gli analisti e alcune tipologie di investitori hanno visto di buon occhio l’inizio di una “specie di fase laterale”, o almeno a ridotta volatilità, che ha ancorato il Bitcoin intorno ai 6.500 dollari. Una fase che ha avuto una rilevanza tecnica e statistica, anche perché è durata sei mesi.
Ebbene, a partire da metà novembre, il Bitcoin ha rotto un supporto dopo l’altro. E’ ovvio che un movimento del genere, viste anche le speranze di stabilizzazione, sia destinato a fare rumore e a generare conseguenze all’ultimo termine. Da questo e da altri punti di vista, questo crollo non può essere assimilato agli altri. Anche perché sa di fallimento: il Bitcoin ha tentato una “normalizzazione” e non ce l’ha fatta, offrendo ai detrattori argomenti validi per affermare che una normalizzazione non è possibile né ora né mai.
Questioni di famiglia all’interno di Bitcoin Cash
E’ notizia recente: il Bitcoin Cash si è scisso. In gergo si chiama fork. Nella fattispecie, un hard fork: ovvero una scissione che genera due criptovalute completamente diverse e incompatibili. Ora, nemmeno in questo caso, a una prima analisi, l’evento appare granché importante. Anche perché di scissioni, o fork, ce ne sono state e ce ne saranno sempre. E’ un altro tratto tipico delle valute virtuali. Anzi, in alcuni casi rappresentano una iniziativa di tipo strategico molto intelligente, volte a risolvere problemi strutturali o a presidiare specifiche nicchie di mercato. Il Bitcoin Cash era nato esattamente con questo intento: risolvere il problema della lentezza delle transizioni e occupare lo spazio presidiato da Ethereum, all’epoca considerata “criptovaluta veloce”.
Tuttavia, il caso di Bitcoin Cash, scissosi in Bitcoin ABC e Bitcoin SV, appare diverso. Nello specifico, sembra che non sia giustificato da uno scopo tecnico, da un indirizzo strategico. Gli investitori e gli analisti si chiedono: c’era bisogno di questa ennesima fork? Molti rispondono che no, non c’era bisogno, e che questo evento ha ragioni diverse e che poco o nulla hanno a che vedere con il mondo delle criptovalute.
Il riferimento è alle presunte beghe all’interno della community dei risparmiatori. Come dichiara Pierangelo Soldavini de Il Sole 24, si ha la sensazione di assistere “a una lite di famiglia”.
Ciò, sempre secondo il giornalista, rafforza la percezione di una totale mancanza di governance, che se potrebbe lasciare indifferente lo zoccolo duro del mondo crypto, certo allontana gli investitori più tradizionali e le istituzioni.
Può darsi che i neonati Bitcoin ABC e Bitcoin SV facciano molta strada. Per ora, la “maretta” ha generato più di qualche conseguenza sui mercati: in percentuale, il Bitcoin Cash ha perso più del Bitcoin classico.
Scarso successo dei Future
L’entrata in scena dei future sui Bitcoin ha fatto molto scalpore. E’ sembrata disegnare un punto di svolta per il mondo delle criptovalute, un punto di svolta che le avrebbe condotto verso un futuro più “tranquillo”, regolamentato quanto basta per aprirsi alla massa. In effetti, l’emissione dei futuri ha incarnato molto bene questa speranza. Certo è che il processo di “istituzionalizzazione” e di “normalizzazione” se proprio non ha subito una battuta di arresto, comunque è proseguito a rilento.
Un dato valga per tutti: i future hanno raccolto in tutto solo 20 miliardi. Un po’ pochini se si pensa alle attese e alle aspettative, ma anche all’enorme capitalizzazione (per gli standard crypto) di cui Bitcoin godeva all’epoca e di cui gode tutt’ora.
Ciò, ovvero la scarsità di liquidità, peggiorata tra le altre cose da un calo della capitalizzazione generale (330 miliardi a 80 miliardi nel giro di un anno), aumenta la percezione di cui sopra. Ovvero che il Bitcoin pecca più del necessario di governance, e che in fondo sia manipolabile nei prezzi e negli andamenti. Una percezione che rischia, a prescindere dall’asset class, di ammazzare il mercato.
L’iniziativa della SEC
Un’altra motivazione trova origine in un elemento endogeno. Ovvero, i provvedimenti che ha preso la SEC circa alcune ICO non proprio affidabili, che avevano tutta l’aria di nascondere una truffa o almeno un comportamento poco consono in un’ottica di tutela degli investitori. Anche qui, nulla di strano apparentemente: la SEC ha semplicemente fatto il suo mestiere, che è quello di vigilare ed eventualmente sanzionare. Tuttavia, è la prima volta che la SEC interviene su delle ICO.
Questo intervento fa il paio con le dichiarazioni del presidente della SEC Jay Clayton, secondo cui le criptovalute, a esclusione delle major (tra cui Bitcoin ed Ethereum), andrebbero assimilate alle Security e sottoposte alle medesime regole.
Sullo sfondo, sporadici attacchi da parte delle istituzioni, come quello di Benoit Coeure, membro del board BCE, secondo cui le il Bitcoin è un’idea intelligente, ma non necessariamente buona, e che ha tutta l’aria di essere “il diavolo generato dalla crisi finanziaria”.
Insomma, per ora non spira un buon vento sul mondo del Bitcoin. Accanto ai problemi atavici, all’orizzonte se ne profilano di altri, forse non facilmente risolvibili e destinati a produrre conseguenze a lungo termine, forse addirittura definitive.