Il 2017 doveva essere l’anno della parità euro dollaro. L’anno si era aperto con una quotazione bassa come non se ne vedevano da molti, con pochi centesimi a dividere il cambio dal rapporto 1 a 1. Poi, è accaduto qualcosa che pochi si aspettavano: la moneta unica ha iniziato a rivalutarsi sul biglietto verde. A fine anno, si attestava sopra l’1,20, sostanziando un parziale recupero della svalutazione avvenuta nei tre anni passati. Ancora oggi, a inizio 2018, la corsa dell’euro non dà segni di cedimento. Non che all’eurozona faccia così piacere: un euro forte rischia di mettere in pericolo le esportazioni, le quali rappresentano buona parte della linfa vitale presso cui le martoriate aziende del continente, in una situazione di domanda interna ancora precaria, si approvvigionano.

Perché l’euro si sta rafforzando sul dollaro? Rispondere è importante, e non solo perché aiuta a comprendere i perché di uno dei fenomeni più interessanti del mercato valutaria, ma anche perché rispondere vuol dire dotarsi degli strumenti necessari a intuire per tempo l’esplosione di una eventuale inversione di tendenza.

Ecco i motivi più importanti per cui l’euro-dollaro sta crescendo.

L’economia europea

L’economia europea è considerata il grande malato del mondo, alle prese com’è da problemi riguardanti la produttività, la tensione tra necessità di comprimere i salari (per ridurre i costi di produzione) e la volontà di conservare i diritti, l’inflazione troppo bassa e una crescita al rallentatore. All’alba del 2017 il mondo sembrava essere uscito dalla crisi, Stati Uniti compresi, mentre il Vecchio Continente arrancava con tassi di crescita del PIL da zero virgola. Un fenomeno non da poco, dal momento che gli investitori valutano anche e soprattutto quanto giunge dall’economia reale. Il 2017 si annunciava un anno sulla falsariga di quello precedente.

E invece l’Europa, e più smaccatamente l’eurozona, ha saputo stupire tutti: investitori, analisti, persino politici. E’ cresciuta molto più del previsto. Le previsioni parlavano di un PIL in aumento dell’1,7%, e sono state smentite da un tasso di crescita pari al 2,3%. Il tasso di disoccupazione si è addirittura abbassato, raggiungendo i minimi del 2008 al 9,1%. Dati molto positivi si sono registrati sul fronte dei consumi, della produzione industriale e dei servizi. Il rafforzamento dell’euro, quindi, si spiega anche con il miglioramento delle condizioni economiche europee, che hanno persino spiazzato gli investitori ampliando l’effetto sulla moneta unica.

Ebbene, anche il 2018 sta facendo segnare i primi importanti dati. La tendenza non si è arrestata, anzi si è accentuata ancora di più. E’ lecito prevedere, quindi, che lo spazio per una crescita dell’euro non si sia esaurito. Anche perché, se guardiamo al tasso di disoccupazione, è previsto un più confortante 8,5% quest’anno e un ottimo 7,9% per l’anno successivo.

La politica europea

Anche la situazione europea rappresenta un fattore di rafforzamento dell’euro. Il motivo è semplice: i focolai di ribellismo sembrano essere quasi del tutto spenti. Sulla capacità del clima politico di influenzare i rapporti tra le valute, non ci possono essere dubbi di sorta. Maggiore è il caos politico in un dato momento, più la sua valuta soffre, anche se ovviamente è solo uno dei fattori in gioco. Ebbene, già dal 2017, sebbene risulti chiaro solo adesso, il cielo nel panorama politico europeo sta volgendo al bello. Fino a un anno fa, si stagliavano però pesanti dubbi: la possibilità di vittoria della Le Pen, la certezza per una Brexit incredibilmente lunga e complicata etc. i timori per una vittoria dell’estrema destra in Germania. Il 2017 ha però disegnato l’esclusione del Front National da qualsiasi spiraglio governativo, una Brexit che nonostante le attuali difficoltà si è incanalata in un percorso di dialogo, la comparsa dell’ennesimo governo di coalizione in Germania (anche se la notizia è stata ufficializzata a 2018 inoltrato).

Dunque, tutto bene politicamente per l’Europa? A ben vedere, rimane un solo motivo di preoccupazione: le elezioni politiche in Italia. Probabilmente, nessun partito avrà la maggioranza, quindi, secondo gli investitori le probabilità per un governo PD-Forza Italia sono ancora molto alte. Il timore è che possa vincere il Movimento 5 Stelle o la Lega, o che possano formare una coalizione anti-europeista e contro lo status quo. Come si evince da una lettura persino superficiale della stampa internazionale, non è una evenienza probabile.

Dunque, è proprio questo uno dei motivi per cui l’euro si sta rafforzando: un panorama politico meno teso, meno incero, meno influenzato dai partiti (almeno ideologicamente) ai partiti “potenzialmente rivoluzionari”.

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A tal proposito, Mauro Vicini, responsabile di WebSim, intervistato da Business Insider, ha dichiarato: “bisogna tenere conto che l’euro ha alle spalle una lunga fase di sofferenza dovuta al timore che la valuta unica implodesse, con il rischio Grecia prima e con il rischio dei nazionalismi populisti dopo. Molti capitali avevano abbandonato l’euro per rifugiarsi nel dollaro”.

Le politiche fiscali USA

Non è un mistero che Donald Trump parteggi per il dollaro debole. Lo ha ripetuto più volte durante la sua campagna elettorale: il biglietto verde è troppo forte, e questo mette in crisi le esportazioni americane e le rende meno competitive rispetto ai principali player internazionali. Per ragioni politiche, il bersaglio di queste filippiche è stata la Cina, ma è indubbio che nei pensieri del magnate statunitense ci sia soprattutto l’Europa, e nello specifico la Germania: a livello di produttività e costi, le aziende tedesche, soprattutto quelle che appartengono alla manifattura, appaiono irraggiungibili.

Dunque, l’amministrazione Trump ha tutto l’interesse a cercar anche forzatamente la svalutazione del dollaro. L’obiettivo è, come anticipato, quello di ridurre il deficit, mentre il sogno è quello di rendere gli USA una nazione esportatrice. Ora, il presidente ha bisogno dei risultati più o meno immediati, da sventolare nella campagna midterm, che negli Stati Uniti ricopre una importanza cruciale perché ha il potere di svincolare il parlamento dall’amministrazione in carica. Ebbene, una riduzione del disavanzo sarebbe un buon risultato. In un anno o poco più, in effetti l’unico modo per ottenerlo è svalutare.

Donald Trump, sostenuto da una Federal Reserve incredibilmente cauta e prudente, ha posto in essere una politica fiscale in grado di favorire la discesa del dollaro. Una politica fiscale che potesse aumentare la massa monetaria: ha abbassato drasticamente le tasse.

C’è chi dice che la spinta si è esaurita, e che il dollaro, alle condizioni attuali (comunque l’economia USA è più in salute di quella europea), ha raggiunto il “piccolo di debolezza” nei confronti dell’euro. Tuttavia, c’è da considerare la carta dei dazi, che è sì molto pericolosa ma ha perlomeno il pregio di ridurre drasticamente le importazioni. E’ pericolosa perché, a ben vedere, alcuni dei componenti delle produzioni cinesi sono realizzati dalle aziende americane, quindi i dazi potrebbero ritorcersi contro.

Le politiche monetarie USA

Ovviamente, uno dei fattori principali della poderosa risalita dell’euro sul dollaro riguarda la politica monetaria USA. A uno sguardo superficiale, si direbbe che l’operato della Fed, se confrontato con quello della Bce, dovrebbe favorire un rafforzamento del biglietto verde, piuttosto che un suo indebolimento. D’altronde, la Fed sta sostenendo la stretta monetaria, mentre la Bce sta sostenendo tassi pari a zero e sta mantenendo in piedi il programma di Quantitative Easing. Il nodo cruciale, tuttavia, è duplice: da un lato, le modalità con cui le banche centrali stanno conducendo le loro politiche; dall’altro lato, non tanto il presente quanto l’outlook.

Partiamo dalle modalità di conduzione. Per quanto riguarda la Fed, il rialzo è previsto a un ritmo moderato….. Appunto: troppo moderato. Dopo anni di Quantitative Easing spinto e di tassi bassi, forse ci si aspettava dalla banca centrale americana una stretta più salda, un percorso più rapido di normalizzazione dei tassi. La politica monetaria, se si esclude una iniziale euforia per l’inizio del nuovo corso, ha sortito l’effetto contrario: ha indebolito il dollaro.

Per quanto riguarda l’outlook: beh, è tutto già scritto: la Fed ha ampiamente dichiarato come si comporterà nel prossimo biennio. Nello specifico, continuerà con l’approccio prudente, quindi i tassi verranno alzati poco a poco, due o tre volte all’anno. Ciò, oltre a riverberare l’effetto che abbiamo descritto poco fa, ha provocato un’altra conseguenze: il mercato ha già scontato l’aumento dei tassi. Lo ha fatto, a dire il vero, quasi subito, sicché la spinta propulsiva del dollaro si è esaurita. Non stupisce, quindi, che ora il biglietto verde sia in balia degli alti fattori di cui abbiamo fatto menzione fino a questo punto.

La politica monetaria della BCE

Anche la politica monetaria della Bce sta influenzando il cambio euro-dollaro, in una direzione che si muove verso il rafforzamento dell’euro e l’indebolimento del dollaro. Probabilmente, non c’è nulla dietro: la banca centrale del Vecchio Continente sta perseguendo i suoi obiettivi, quindi questa tendenza è semplicemente un effetto collaterale. Anche perché, è necessario essere chiari su questo, l’euro forte non fa per niente bene all’eurozona: i paesi dell’UE sono a trazione esportatrice, e in ogni caso la crescita – nonostante i risultati sopra le aspettative – è ancora troppo debole per sostenere la produzione, e ispirare un aumento dei consumi che vada oltre la linea di galleggiamento. Ma tant’è: anche la politica monetaria europea ha influito sul cambio.

Come? Semplice: cominciando a preparare il terreno per una futura stretta monetaria. Per adesso, si parla solo di fine del Quantitative Easing, con i tassi che rimarranno azzerati ancora a lungo, ma tanto è bastato. D’altronde, è stato proprio il “bazooka” di Mario Draghi ad aver rappresentato un’ancora di salvezza per l’intera unione, sicché vederlo depotenziato – o addirittura in soffitta – ha forse generato l’effetto di una vera e propria politica restrittiva.

Inoltre, probabilmente i mercati si fidano molto più della forza tedesca che dalla lungimiranza di Mario Draghi. I falchi tedeschi, infatti, spingono per una stretta monetaria nel vero senso della parola, mente il presidente della Bce dichiara regolarmente che il Quantitative Easing, se necessario, verrebbe ripristinato. Il primo segnale è chiaramente restrittivo, e produce un rafforzamento dell’euro. Il secondo è espansivo e punta a un suo deprezzamento. Gli investitori credono che, a spuntarla, saranno i tedeschi. E non c’è nemmeno da dargli torto: tra poco il mandato di Draghi terminerà, e al suo posto potrebbe esserci Weisemann, che è l’attuale presidente della Bundesbank.

Certo è che se in un prossimo futuro l’economia europea producesse risultati molto negativi, e Mario Draghi ricorrerebbe di nuovo al Quantitative Easing, il rapporto di forze cambierebbe drasticamente: ci sarebbero ampie possibilità che la svalutazione del dollaro rispetto all’euro diventi solo un ricordo.