Il 14 giugno Mario Draghi ha annunciato la fine del Quantitative Easing in Europa. Un annuncio che molti aspettavano, se non per quella riunione senz’altro nelle riunioni successive, ma che ha fatto comunque scalpore e riacceso un dibattito. La verità è che la fine del Quantitative Easing è un evento epocale, così come lo era stata la sua introduzione del resto, in grado certamente di generare conseguenze, secondo alcuni squisitamente negativa, nelle economie dei paesi europei. Produrrà effetti certamente anche sul mercato valutario, e in particolare sull’euro-dollaro, le cui dinamiche sono diventate negli ultimi anni molto sensibili ai cambiamenti di politica monetaria dei due principali attori: la Federal Reserve e la BCE.

In questo articolo approfondiremo l’argomento, offrendo una panoramica di quello che è (anzi è stato) il Quantitative Easing in Europa e cercando di prevedere l’impatto che la sua conclusione avrà sul cambio euro-dollaro.

Cos’è il Quantitative Easing

Partiamo dicendo che il Quantitative Easing è una misura di politica monetaria, ovvero una delle leve attraverso cui le banche centrali gestiscono il denaro all’interno del sistema economico e perseguono gli obiettivi che si sono prefissati. Obiettivi che variano a seconda della struttura e della ragion d’essere di ciascun istituto, ma che comprendono sempre il controllo dei prezzi. Questi, nello specifico, devono crescere in maniera moderata, intorno al 2% annuo, in modo da favorire le attività economiche ma di scongiurare, allo stesso tempo, una contrazione del potere di acquisto dei contribuenti.

In particolare, il Quantitative Easing è una misura di politica monetaria espansiva. E’ definita tale in quanto capace di aumentare la massa monetaria in circolo, ossia il denaro all’interno del sistema economico, e di conseguenza di aumentare il ritmo al quale i prezzi aumentano, ovvero l’inflazione. Per inciso, nonostante il Quantitative Easing sia stato dipinto come una misura straordinaria al tempi in cui fu adottato (gennaio 2015), altrove è una misura “normalissima”, il cui impiego, se ovviamente sussistono le condizioni, non causa stupore. La percezione di straordinarietà è tipica dell’Europa, in quanto da un lato il Quantitative Easing non piace tradizionalmente ad alcuni paesi, come la Germania, e dall’altro potrebbe in linea teorica entrare in contraddizione con alcuni vincoli opertivi che riguardano la BCE e solo la BCE.

Ma in che cosa consiste nello specifico la BCE? Molto semplice: consiste nell’acquisto, da parte della banca centrale, di titoli di debito. Questi possono essere sia pubblici che privati, sebbene la quota di titoli pubblici, e quindi titoli di Stato, sia tradizionalmente molto superorie. Acquistando di fatto del debito, e soprattutto facendolo a costo zero per il debitore, la banca centrale di fatto immette moneta nel sistema economico. L’alternativa, infatti, sarebbe, per gli Stati e per le aziende, rivolgersi al mercato privato, detto anche mercato secondario, che logicamente, scontando interessi (che possano essere anche alti) frenano le velleità di finanziamento.

Secondo la teoria economica, e secondo l’esperienza (perché, checché ne dicano i detrattori, il Quantitative Easing funziona), quando si aumenta la quantità di denaro in un sistema, aumenta anche l’inflazione. Ecco, quindi, il motivo per cui una banca centrale ricorre al Quantitative Easing: per aumentare l’inflazione, se questa è troppo bassa. La bassa inflazione ha falcidiato per parecchi anni l’eurozona, impedendo di fatto l’uscita dalla crisi. Si pensi che alla fine del 2014 molti paesi, compresi l’Italia, si trovavano in un dannosissimo stato di deflazione: i prezzi, anziché salire, per quanto moderatamente, addirittura scendevano.

Mario Draghi e il board della BCE, a fronte di una situazione davvero pessima, e nonostante il parere contrario delle economie settentrionali, hanno varato una loro versione di Quantitative Easing. Essa prevedeva inizialmente l’acquisto di titoli di debito per 60 miliardi al mese, poi aumentati a 80 e infine ridotti ancora, una volta che l’inflazione sembrava aver imboccato la direzione giusta. Il 14 giugno, rivelando un aumento dei prezzi finalmente vicino al 2%, Mario Draghi ha annunciato, per l’appunto, la sua conclusione per il 31 dicembre 2018.

Se il QE fa bene, perché terminarlo? Semplice, perché è efficace. Aumenta realmente l’inflazione. Dunque, se venisse mantenuto una volta raggiunto l’obiettivo dei prezzi, questi prenderebbero una piega non gradita. Si passerebbe, insomma, dalla padella (deflazione) alla brace (inflazione troppo alta). Alcuni commentatori, comunque, giudicano troppo prematura la fine del Quantitative Easing, poiché secondo loro gli Stati ad alto debito, tra cui spicca l’Italia, non sono ancora pronti a fare riferimento al solo mercato secondario per finanziarsi. Il pericolo è che i tassi di interessi, e con essi il famoso spread, possano salire oltre i livelli di guardia. Ciò significherebbe, oltre che un bilancio dello Stato in sofferenza, anche una pressione sui mutui a tasso variabile, arrivando a colpire così i piccoli e grandi contribuenti.

Se gli effetti dal punto di vista dell’economia reale sono noti e ben discussi, lo stesso non si può dire degli effetti sul mercato valutario. Nei prossimi paragrafi affronteremo l’argomento.

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Quantitative Easing e Forex: il rapporto in astratto

Per capire cosa ne sarà dell’euro-dollaro una volta che il Quantitative Easing sarà messo in soffitta, dobbiamo analizzare l’impatto del QE sulle valute in generale, ossia stando a quello che racconta, suggerisce e disciplina la teoria economica.

Ebbene, abbiamo già detto che il Quantitative Easing è una misura espansiva. Nello specifico, è la misura di politica monetaria più espansiva di tutte. In quanto misura espansiva, dunque, produce, in linea teorica, un deprezzamento della valuta rispetto alle altre, se queste non fanno riferimento a una banca centrale che utilizza il medesimo approccio (ed è questo il caso, a dire il vero).

Questa regola, che è valida certamente in astratto, ha dimostrato una sua solidità anche nella storia recente dell’euro. Nel primo anno in cui è stato varato il Quantitative Easing, che è coinciso con la fine di quello statunitense, l’euro si è fortemente svalutato rispetto al dollaro. Si parla di scostamenti superiori al 30%. Un effetto voluto e cercato, per quanto secondario e non dichiarato, per far ripartire le esportazioni in Europa, dare ossigeno alle imprese e stimolare una crescita che fino ad allora era nulla, asfittica o ballerina.

Alla luce di ciò, si evince che se il Quantitative Easing si conclude si ottiene l’effetto opposto. La politica monetaria muta di segno, se non totalmente (c’è anche la leva dei tassi di interesse da considerare) almeno parzialmente. Tale effetto è amplificato se la banca centrale “controparte”, in questo caso la FED, applica politiche monetaria espansive o comunque non molto restrittive. Nella fattispecie, quindi, l’euro dovrebbe rafforzarsi sul dollaro.

A questa riflessione sulle dinamiche teoriche va però aggiunta una riflessione più accurata, che prenda in considerazione il contesto nel quale sono immersi l’euro e il dollaro. Un contesto che, in verità, è davvero complesso, con punte di imprevedibilità pura, le quali sono causate non solo da aspetti di politica monetaria ma anche dalla politica interna e dalla geopolitica. Nel prossimo paragrafo descriveremo appunto il contesto, e poi ci lanceremo in qualche previsione.

Quantitative Easing ed euro-dollaro: previsioni

Per analizzare il contesto in maniera corretta dobbiamo “scompattarlo” in monetario, economico, politico. Ciascuno di questi sotto-contesti, infatti, incide in un verso o nell’altro sulle dinamiche fine QE-Forex, che come abbiamo viste fanno, al netto di tutte, giudicate come rialziste nei confronti dell’euro dollaro.

  • Contesto monetario. E’ vero, la Banca Centrale Europea si appresta a stringere i cordoni della borsa con la fine del Quantitative. E, anzi, lo farà ancora di più dalla seconda metà dell’anno prossimo, quando è addirittura previsto un primo rialzo dei tassi di interesse. Tuttavia, la Federal Reserve ha intrapreso da tempo il sentiero della stretta monetaria, con tre o quattro rialzi dei tassi all’anno. Il percorso, sia chiaro, è molto prudente e lento, ma è pur sempre un percorso di politica monetaria in via di… Restringimento.
  • Contesto economico. In genere, quando una economia va bene, la sua valuta si rafforza. Attualmente, l’economia dell’eurozona è in fase di crescita, più o meno allo stesso ritmo di quella degli Stati Uniti. Permangono, però, alcune debolezze strutturali, con dei vulnus che riguardano specifici paesi (tra cui spicca l’Italia, con il rischio insostenibilità del suo debito) che potrebbero repentinamente cambiare le carte in tavola.
  • Contesto geopolitico e politico. Veramente complicato. I tasselli sul tavolo sono numerosi: dalla guerra dei dazi, all’avanzata dei populisti e le destre etc. Ora, una guerra dei dazi potrebbe portare a un indebolimento del dollaro, poiché questo è lo scopo di Trump. Tuttavia, lo scoppio di crisi politiche innescate dai partiti euroscettici potrebbero tirare verso il basso l’euro. Questi due pericoli vanno messi sulla bilancia, ma non si sa bene quale dei due piatti peserà di più.

E arriviamo al momento delle previsioni. Visti i fattori in gioco, è bene considerare tre scenari: uno lineare, uno movimentato e uno molto movimentato.

Scenario lineare. Le economie rispettano le previsioni, i focolai diplomatici e geopolitici si spengono, le politiche interne dei vari paesi si normalizzano. In questo scenario, che oggettivamente è quello preferibile, a influire sull’euro-dollaro saranno soprattutto le politiche monetarie. Dunque, l’euro dovrebbe apprezzarsi sul dollaro, ma non di moltissimo visto che comunque la Federal Reserve non sta adottando un approccio espansivo. La spinta al rialzo potrebbe essere smorzata anche da un fatto banale: la politica monetaria è l’unica prevedibile, in quanto preannunciata dai suoi esponenti. Dunque, potrebbe essere già stata scontata in parte dagli investitori.

Scenario movimentato. Fermo restando le riflessioni fin qui fatte sull’aspetto monetario, le dinamiche potrebbe essere contraddette dall’esplosione di uno dei due grandi fronti, quello politico-geopolitico e quello economico. In questo caso, il destino dell’euro-dollaro dipende dall’esito degli scontri. Se per esempio Trump vincesse la guerra dei dazi, l’euro salirebbe e di parecchio. Se invece a esplodere fossero le contraddizioni dell’eurozona, sia economiche che politiche, l’euro potrebbe persino svalutarsi in maniera significativa.

Scenario molto movimentato. In questo scenario, tutti i fronti sarebbero attivi: la guerra dei dazi, lo scontro tra paesi membri e istituzioni europee, le difficoltà economiche dell’eurozona. E’ difficile, oggettivamente, anche solo immaginare cosa potrebbe accadere all’euro-dollaro in una situazione di questo tipo. E’ oggettivamente lo scenario peggiore per gli investitori, Forex trader compresi, ma forse lo sarebbe per chiunque. Sarebbe infatti uno scenario minato da una forte incertezza, e a più livelli. Insomma, il caos totale, che potrebbe anche innescare processi di cambiamento radicale difficilmente intelligibili, anche con pochi mesi di anticipo.